I repubblicani statunitensi in vista delle elezioni del 2024

José Ramón Cabañas Rodríguez

Nelle ultime settimane si sono aggiunti nomi alla lista dei politici USA che cercherebbero la nomination repubblicana, per candidarsi alle elezioni presidenziali del novembre 2024. Manca ancora un anno e mezzo a un tale evento, ma si possono andar già elaborando alcune idee che ci permettano, non di indovinare chi potrebbe risultare eletto, bensì prepararci ai probabili scenari che avremo davanti a noi.

Il fatto che un politico USA annunci una tale intenzione significa qualcosa di più che credersi migliore degli altri, di avere il programma meglio concepito per affrontare i problemi urgenti del Paese, o di contare sulle risorse minime necessarie per promuovere un sufficiente sostegno nell’elettorato.

Sebbene Donald Trump abbia dovuto ottenere la nomination nel corso del 2016 davanti ad un’affollata concorrenza tra repubblicani, nel 2020 è stato il candidato indiscusso. In quattro anni ha fatto sufficienti impedimenti, indebolendo notevolmente le infrastrutture del partito, minacciando, pressando e ricattando ogni possibile aspirante che avrebbe potuto affrontare. Inoltre, ha ricompensato adeguatamente coloro che hanno finanziato, in maniera determinante, la sua prima campagna, con risparmi fiscali e altri vantaggi imprenditoriali.

Il fatto che entro il 2024 sia già emerso più di un nome per opporsi ai suoi scopi significa diverse cose. Una di queste è che potrebbe essere d’interesse di quei gruppi di finanziatori che hanno una notevole influenza, o spesso decidono chi riceverà più voti.

In questo senso potrebbero accadere diverse cose: a) Trump è considerato da quelli ad alto rischio, poco maneggevole, b) è necessario un cambio d’immagine per raggiungere gli stessi scopi; o, incluso, c) l’esistenza di più candidati contribuisce a indebolire l’opposizione che gli offrirebbe il secondo rivale più forte.

C’è ancora un altro fattore che è insito nella cultura USA: Trump è già considerato un perdente (looser) dai risultati del 2020 e il cittadino comune di quel paese non scommette sui perdenti né per il presidente, per il direttore di una scuola, né per capo di una banda musicale.

È vero che tutta la sua attuale campagna si basa sull’argomentazione che le ultime elezioni gli siano state rubate, ma ci sono sempre meno prove a sostegno di una tale affermazione, che sta diventando credibile solo per gli stessi che assicurano di fare colazione con un gremlin (creatura fantasiosa ndt) a casa tutti i giorni.

Qualunque sia la ragione alla base della decisione di ognuna di queste persone di aspirare alla candidatura, ciò che è più tangibile è che hanno compiuto un passo impensabile quattro anni fa e sono disposte ad affrontare l’artiglieria reattiva degli attacchi personali trumpisti, oppure hanno risorse per acquisire gli anticorpi necessari.

Il gruppo di attuali aspiranti dovrebbe essere diviso tra coloro che hanno una carriera meno sviluppata e aspirano non a essere nominati bensì a rendersi più visibili a livello nazionale ed eventualmente ad essere scelti per posizioni di alto livello. Tuttavia, finora non c’è nessuno tra loro che possa considerarsi un nuovo arrivato in politica.

Non sarà fino alla primavera del 2024 che si avrà un’idea, più o meno chiara, di chi o di coloro che avranno le migliori possibilità di rappresentare i repubblicani davanti ad un invecchiato Joe Biden, contro il quale pesano, costantemente, dubbi sul suo stato di salute, che tecnicamente potrebbe essere rieletto solo per poi lasciare l’incarico nelle mani di una vicepresidente poco abile e che non  agglutina nemmeno nel suo stato d’origine.

Anche se al momento i sondaggi ci fanno credere che Trump abbia un favoritismo indiscusso tra i sostenitori repubblicani, ci sono troppi mesi in mezzo per ignorare che una sentenza del tribunale contro di lui possa inabilitarlo (o moltiplicare il numero dei seguaci), o che anche la salute gli giochi un brutto tiro.

Come già accaduto in altre occasioni in passato, le elezioni presidenziali del 2024 potrebbero essere decise non tanto dai voti fisici a favore dell’uno o dell’altro partito, bensì dalle grandi masse che vedono limitato il proprio diritto di voto, a partire dall’interminabile lista di regolamenti e condizionamenti che sono stati approvati dalle 50 assemblee statali, per lo più repubblicane. Finora non esiste letteratura che riassuma il numero di seggi di autorità elettorali locali che sono state ricoperte da seguaci del mito della “rapina del 2020”, né quanti seggi di corte d’appello saranno occupati da giudici di verificabile inclinazione repubblicana, nel caso si debba rispondere alle pretese dell’altra parte.

Tuttavia, di fronte a questa enorme quantità di ragionamenti incompleti, mezze misure e mancanza di dati, si possono relazionare alcune quasi verità che dimostreranno il loro peso specifico di fronte alle prossime elezioni presidenziali.

È la prima volta che tra i pre-candidati repubblicani si presentano una donna (Nikki Haley) e un afro-discendente (Tim Scott), rispettivamente ex governatrice e senatore federale in carica per la Carolina del Sud, il che di per sé indicherebbe il bisogno, avvertito da alcuni operativi del partito, nel dare, al gruppo, un cambio di immagine, almeno in apparenza. È anche la prima volta che un ex presidente nel suo tentativo di tornare nell’arena riceva l’opposizione del suo ex vicepresidente (Mike Pence, Indiana), segno evidente di una divisione almeno tra coloro che sono pro burocrazia tradizionale e chi no.

I repubblicani sono oggi un partito de-istituzionalizzato nel senso che non funzionano i meccanismi interni che tradizionalmente hanno cercato il bilanciamento tra le figure, hanno imposto un certo ordine per osservare le forme in pubblico e che molte volte ottengono che i temi di punta si trattino in privato.

Il Partito Repubblicano continua ad essere il rappresentante principale della “old economy” e dei settori economici perdenti la scommessa sul libero scambio, dal carbone e dall’acciaio all’agricoltura. È il principale contenitore di una frustrazione che si è accumulata per anni, che si sintetizza nella frase “Washington non ci rappresenta”, che ha già attaccato il Campidoglio, il 6 gennaio 2021, e che sarebbero disposti a rifarlo nella capitale federale o nelle statali. E tutto questo anche senza l’ombra di una nuova crisi economica, di una spirale inflazionistica, o di ribassi delle borse, ciò che darebbe all’intero panorama un colore grigio più intenso.

I repubblicani ai tempi di Trump parlavano di rendere di nuovo grande gli USA (Make America Great Again), i democratici di Biden hanno optato per Ricostruire Meglio (Build Back Better), ma nessuna delle due proposte, né i loro rispettivi slogan, hanno prodotto risultati concreti.

Il segno più evidente della mancanza di programmi coerenti e di modi per attuarli nell’ordine interno è stato l’ultimo accordo delle élite partitiste per aumentare il limite massimo del debito federale, che può essere raffigurato nell’immagine dei copriletti che cucivano le nostre nonne con ritagli di stoffe di diversa qualità e colore. Qualcosa che al cinema si chiama Frankenstein.

Questo scenario al momento indicherebbe una politica estera sempre più erratica, meno programmatica, più incline a commettere errori con alti costi, in peggiori condizioni per articolare alleanze, più focalizzata su obiettivi parziali e immediati e più incline a ricorrere a misure coercitive o alla forza.

Data la complessità delle variabili che si incrociano nella realtà nazionale degli USA e anche nei suoi contatti con il mondo esterno, queste possono valere solo per le prossime 24 ore, quindi le domande corrette dovranno essere ripetute molto frequentemente nei mesi che rimangono.


Los republicanos estadounidenses de cara a las elecciones del 2024

Por: José Ramón Cabañas Rodríguez

En las últimas semanas se han ido agregando nombres a la lista de políticos estadounidenses que buscarían la nominación republicana, para postularse como candidatos a las elecciones presidenciales de noviembre del 2024. Estamos aún a año y medio de distancia cronológica de tal acontecimiento, pero pueden irse elaborando ya algunas ideas que nos permitan, no adivinar quién pudiera resultar electo, sino prepararnos para los probables escenarios que tendremos ante nosotros.

El hecho de que un político estadounidense anuncie tal propósito significa algo más que creerse ella o él mismo que es mejor que otros, que tiene el programa mejor concebido para enfrentar los problemas acuciantes del país, o que cuenta con los recursos mínimamente necesarios para promover un apoyo suficiente en el electorado.

Si bien Donald Trump tuvo que obtener la nominación durante el 2016 ante una concurrida competencia entre republicanos, para el 2020 fue el candidato indiscutido. En cuatro años puso suficientes zancadillas, debilitó considerablemente la infraestructura del partido, amenazó, presionó y chantajeó a cuanto posible aspirante se le podría haber enfrentado. Más aún, retribuyó de forma adecuada a los que financiaron de manera determinante su primera campaña, con ahorros en impuestos y otras ventajas empresariales.

El hecho que de cara al 2024 haya ya surgido más de un nombre para oponerse a sus propósitos significa varias cosas. Una de ellas es que podría ser del interés de aquellos grupos de financistas que influyen de manera notable, o muchas veces deciden quién recibirá más votos.

En este sentido, podrían estar sucediendo varias cosas: a) Trump es considerado por aquellos de alto riesgo, poco manejable, b) se necesita un cambio de imagen para lograr los mismos propósitos; o, incluso, c) la existencia de varios candidatos ayuda a debilitar la oposición que le ofrecería el segundo rival más fuerte.

Hay aún otro factor que está empotrado en la cultura estadounidense: Trump es ya considerado un perdedor (looser) por los resultados del 2020 y el ciudadano común de aquel país no apuesta por los perdedores ni para presidente, para director de un colegio, o para líder de una banda de música.

Es cierto que toda su campaña actual se basa en el argumento de que le robaron las elecciones pasadas, pero hay cada vez menos evidencia que sustente tal sentencia, que va resultando creíble solo para los mismos que aseguran que desayunan con un gremlin en casa todos los días.

Cualquiera que sea la razón fundamental detrás de la decisión de todas y cada una de estas personas de aspirar a la candidatura, lo más tangible es que han dado un paso impensable cuatro años atrás y estarían dispuestos a enfrentar la artillería reactiva de los ataques personales trumpistas, o tendrían recursos para adquirir los anticuerpos necesarios.

El grupo de los actuales aspirantes habría que dividirlo entre aquellos que tienen una carrera con menos desarrollo y aspiran, no a ser nominados, sino a hacerse más visibles a nivel nacional y eventualmente ser escogidos para puestos en el alto ejecutivo. No obstante, no hay hasta el momento entre ellos ninguno que pueda considerarse recién llegado a la política.

No será hasta la primavera del 2024 que podrá tenerse una idea más o menos clara de quién, o quiénes, podrán contar con las mayores posibilidades de representar a los republicanos ante un envejecido Joe Biden, contra quien pesa de manera constante la duda sobre su estado de salud, quien técnicamente podría ser reelecto solo para dejar el cargo después en manos de una vicepresidenta poco hábil y que no aglutina ni en su estado natal.

Aunque en estos momentos las encuestas nos hacen creer que Trump cuenta con un favoritismo indiscutido entre los simpatizantes republicanos, hay demasiados meses de por medio, para desconocer que algún fallo judicial en su contra lo pueda incapacitar (o multiplicar la cantidad de seguidores), o que también la salud le juegue una mala pasada.

Tanto como ha sucedido en otras ocasiones en el pasado, las elecciones presidenciales del 2024 podrían ser decididas no tanto por los votos físicos a favor de uno u otro partido, sino por las grandes cantidades que vean limitado su derecho al sufragio, a partir de la interminable lista de normativas y condicionantes que han sido aprobadas por las 50 asambleas estaduales, que son mayoritariamente republicanas. No hay bibliografía hasta ahora que resuma el número de plazas de autoridades electorales locales que se han llenado con seguidores del mito sobre el “robo del 2020”, ni cuántas asientos en cortes de apelación estarán cubiertas por jueces de verificable inclinación republicana, para el caso que se deba responder a reclamaciones de la otra parte.

No obstante, ante esta abrumadora cantidad de razonamientos incompletos, medias tintas y falta de datos, se pueden relacionar algunas casi verdades que probarán su peso específico de cara a los próximos comicios presidenciales.

Es la primera vez que entre los precandidatos republicanos se presentan una mujer (Nikki Haley) y un afrodescendiente (Tim Scott), ex gobernadora y senador federal en funciones por Carolina del Sur respectivamente, lo cual por sí mismo indicaría la necesidad que sienten algunos operativos partidistas en darle un cambio de imagen a la agrupación, al menos en apariencias. Es también la primera vez que un ex presidente en su intento de volver al ruedo recibiría la oposición de su ex vicepresidente (Mike Pence, Indiana), en franca señal de una división al menos entre aquellos que son proburocracia tradicional y los que no.

Los republicanos son hoy un partido desinstitucionalizado en el sentido de que no funcionan los mecanismos internos que tradicionalmente han buscado el balance entre figuras, han impuesto cierto orden para guardar las formas ante el público y que muchas veces logran que los temas más álgidos se traten en privado.

El partido republicano sigue siendo el representante principal de la “vieja economía” y de los sectores económicos perdedores de la apuesta por el libre comercio, que van desde el carbón y el acero, hasta la agricultura. Es el principal contenedor de una frustración que se ha acumulado durante años, que se sintetiza en la frase de “Washington no nos representa”, que ya atacó el capitolio el 6 de enero del 2021 y que estarían dispuestos a hacerlo de nuevo en la capital federal, o en las estaduales. Y todo esto aún sin la sombra de una nueva crisis económica, una espiral inflacionaria, o retroceso en los mercados de valores, que daría a todo el panorama un color gris más intenso.

Los republicanos en tiempos de Trump hablaron de hacer a Estados Unidos grande otra vez (Make America Great Again), los demócratas de Biden han apostado por Reconstruir Mejor (Build Back Better), pero ninguno de los dos propósitos, ni sus respectivos lemas, arrojaron resultados concretos.

La muestra más evidente de la falta de agendas coherentes y de maneras para instrumentarlas en el orden interno ha sido el último acuerdo de las élites partidistas para aumentar el límite máximo de la deuda federal, que se puede graficar en la imagen de las sobrecamas que cosían nuestras abuelas con retazos de telas de diferente calidad y color. Algo que en el cine se denomina un Frankestein.

Este panorama de momento apuntaría hacia una política exterior que será cada vez más errática, menos programática, más inclinada a cometer errores de altos costos, en peores condiciones para articular alianzas, más centrada en objetivos parciales e inmediatos y más inclinada al uso de medidas coercitivas o de la fuerza.

Dada la complejidad de variables que se entrecruzan en la realidad nacional estadounidense y también en sus contactos con el mundo exterior, estas pueden ser verdades solo para las próximas 24 horas, por lo que habrá que repetir las preguntas correctas con mucha frecuencia en los meses que restan.

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