Pensando al futuro della sinistra in America Latina

Harold Bertot Triana* http://razonesdecuba.cubadebate.cu

Cumbre d elos PueblosNon di rado si sente, a ragione, che la ripresa della destra in America Latina -come se fosse una dimostrazione del corsi et ricorsi di Jean Battista Vico- rivela, per la sinistra, molte mancanze. Sconfitte elettorali, dirigenti corrotti, assedio economico, colpi di stato “morbidi” sono cupi scenari visibili di una congiuntura storica che trascende i confini di ogni Stato per rallentare il processo di consolidamento dell’unità latinoamericana.

Questo indica che ci sono molte urgenze nella sinistra per ripensare metodi di lotta e di fare politica, e richiede un esame molto profondo verso l’interno delle organizzazioni politiche e del loro esercizio del potere. Voglio soffermarmi a questo punto solo un problema divenuto cardinale per il consolidamento di questi processi che vive l’America Latina: l’importanza dei leader in relazione alla vera natura dei processi rivoluzionari.

Per molte simili ragioni storiche, culturali, geografiche altri -e molte altre anche-, la cultura del cacique (capo) è stato un elemento chiave nella conduzione e sopravvivenza dei processi politici e sociali in America Latina. Il simbolismo dei dirigenti forti o virtuosi, che affrontano avversità e le conducono a buon fine, o falliscono eroicamente nel tentativo, è una marcata caratteristica della regione, nella cui storia relativamente recente si ammirò i suoi Libertadores nel processo di liberazione coloniale, ed ha visto con dolore le crudezze di sanguinarie dittature in tutto il cono sud durante gran parte del XX secolo come il modo “forte” di prendere le redini molto conveniente per gli USA. Fu assimilato come un fenomeno di questa parte del mondo, che avrebbe avuto un influsso, molto marcato, nei romanzi di tanti autori di fama come Ramon Valle Inclan, Gabriel Garcia Marquez, Alejo Carpentier e Augusto Roa Bastos. Con il crollo di queste dittature e l’avvento delle cosiddette democrazie negli ultimi anni ’80 e nei primi anni ’90, non casualmente molte dei dibattiti girarono tra vecchie e nuove visioni della politica e dell’esercizio del potere, col punto focale sulla tradizione di dirigenti, temporalmente lunga, in particolare per l’influsso, che da allora, si scoprì del modello politico USA in tutto il continente.

Ma torniamo ad un aspetto specifico degli attuali processi di sinistra. Molti di loro si sono identificati, in modo straordinario, con dirigenti di grandezza non comune come Hugo Chavez, Rafael Correa e Evo Morales. Questo, naturalmente, obbedisce a molti fattori. Sono stati i dirigenti delle grandi trasformazioni sociali, economiche e politiche -eletti democraticamente- e hanno dimostrato, ancora una volta, l’enorme influenza del dirigente nel corso ed esito degli eventi storici. Questo sembra essere senza ombra di dubbio, anche per i nemici dei processi di sinistra che da molto tempo hanno nelle priorità dei loro calcoli l’eliminazione fisica dei dirigenti come un passo essenziale per smantellare questi processi. Lo stesso marxismo pose in una prospettiva generale il ruolo dei dirigenti e uomini importanti nel corso della storia, nel contesto di una relazione tra casualità e la necessità nei processi storici.

chavezCon la morte di Chavez, nel 2013, è apparso improvvisamente, tuttavia, una preoccupazione sula vera naturalezza dei processi politici in America Latina, di fronte all’ assenza di grandi leader. E in più di un’occasione sembra esplodere l’idea che il futuro di un progetto sociale non possa collocarsi nella prospettiva di creare le basi politiche ed ideologiche tenendo la figura del dirigente come alfa e omega del processo stesso. Non contrasta questa affermazione con l’importanza e la necessità dei dirigenti nei processi: il leader rompe gli schemi tradizionali nel teorico, programmatico ed ideologico; nella lotta rileva i più fini dettagli nel nell’ordito degli scenari sociali e politici che diventano trascendentali a scala strategica; proietta la sicurezza del futuro in una combinazione di comportamenti ed idee che sogliono mostrare carismi di moltitudini; intuiscono e progettano previsioni da scacchisti, e cancella ogni possibilità di pensare in negativo; esprime tutta la prospettiva conseguente e incoraggiante di un processo prima falliti e inevitabili fasi della lotta.

Ma ben poche possibilità di continuità e successo avranno se la tendenza dei processi d’emancipazione si confida nell’immortalità fisica di alcuni esseri straordinari. Migliore, più conveniente è rafforzare la istituzionalità rivoluzionaria, estendere e consolidare l’egemonia politica ed ideologica di sinistra. In molte parti del mondo il capitalismo ha saputo prescindere, per lunghi periodi, di dirigenti virtuosi e geniali, proprio perché queste figure divennero secondarie nel modello di dominazione i cui fattori essenziali erano puntellati da un forte e consolidato quadro istituzionale per l’articolazione di un’egemonia che dà prevalenza al sistema sugli individui.

In questo contesto, la sinistra trova un rivale nella vittoria provvisoria dell’egemonia ideologica-politica del capitalismo. E soprattutto, nell’idea che andiamo sostenendo: che al di là della necessità del leader c’è la necessità del proprio progetto politico e sociale, e la possibilità della sua continuità e sopravvivenza. Un peso straordinariamente importante lo gioca qui il consolidamento delle strutture partitiche. Questa lezione, in qualche modo, l’appresero alcuni partiti e movimenti di sinistra, quando nel contesto dell’offensiva neo liberale della fine degli anni ’90 e primi anni del XXI secolo, non concessero molta importanza alla questione dell’organizzazione del partito ed alla coscientizzazione delle masse, e non poterono consolidare una valida immediata alternativa con il rovesciamento di diversi governi in Ecuador, Bolivia ed Argentina. Si perse per quel momento congiunturale -e prima dell’arrivo in quei paesi di governi progressisti- la visione strategica dell’organizzazione, le strutture gerarchizzate, la strategia rivoluzionaria, l’unificazione delle concezioni di lotta, e caddero in un dannoso percorso di spontaneismo nella lotta.

Nel consolidamento dei processi di sinistra che vive il continente, questa logica opera in un senso proporzionale. Partiti forti e ben organizzati devono essere congruenti con una politica di quadri corretta. Allo stesso tempo, l’egemonia politica ed ideologica deve consolidarsi con il progressivo smantellamento delle strutture e delle condizioni che servono da piattaforma per la riproduzione dei modelli capitalisti. Non l’imposizione del consenso ma la costruzione del consenso a partire da una piattaforma strutturale, nel politico ed ideologico, che potenzi e serva da condizionamento per affermare ed estendere idee, valori, paradigmi.

In sintesi, la sinistra ha bisogno di costruire e consolidare progetti di emancipazione ga un assetto istituzionale che riproduca la socializzazione del potere politico e delle relazioni economiche di produzione, che ampli la democratizzazione della via pubblica sino a discenderla, a livello cellulare, nella società. Il socialismo latinoamericano richiede d’insegnamenti permanenti, di giungere alla convinzione di una educazione popolare socialista, di mettere nella prospettiva dell’indoamericano i suoi bisogni, tradizioni e cultura, di focalizzare le aspirazioni ee speranze dei gruppi e delle comunità.

Da tutto quanto sopra esposto, un’ultima conclusione che ha attraversato tutto questo commento: i progetti di emancipazione devono ottenere articolare un modello anti-egemonico al capitalismo che ottenga potenziare e riprodurre un sistema in cui la centralità la occupi la dirigenza collettiva delle masse, a partire dalla strutturazione di meccanismi e percorsi istituzionali per canalizzare e potenziare il suo impulso creativo in un quadro di egemonia ideologica e politica che permetta l’esistenza di sfere di piena realizzazione materiale e spirituale.

* Giurista. Membro del Consiglio Nazionale della Società Culturale José Martí

Pensando el futuro de la izquierda en América Latina

Por Harold Bertot Triana*

En no pocas ocasiones se escucha, con mucha razón, que el repunte de la derecha en América Latina –cual si fuera una demostración de aquel corsi et ricorsi de Jean Baptista Vico- revela para la izquierda muchas necesidades. Derrotas electorales, dirigentes corruptos, asedio económico, Golpes de Estado “blandos”, son panoramas a la vista desalentadores de una coyuntura histórica que trasciende las fronteras de cada Estado para ralentizar el proceso de consolidación de la unidad latinoamericana. Ello denota que hay muchas urgencias en la izquierda por replantearse métodos de lucha y de hacer política, y demanda un examen muy profundo hacia lo interno de las organizaciones políticas y de su ejercicio del poder. Quiero detenerme en este momento solamente en un problema devenido cardinal para la consolidación de estos procesos que vive Latinoamérica: la importancia de los líderes en relación con la verdadera naturaleza de los procesos revolucionarios.

Por muy cercanas razones históricas, culturales, geográficas -y de muchas otras también-, la cultura del cacique ha sido un elemento determinante en la conducción y pervivencia de los procesos políticos y sociales en Latinoamérica. El simbolismo de los liderazgos fuertes o virtuosos, que enfrentan adversidades y las conducen a buen puerto, o fracasan heroicamente en el intento, es una particularidad marcada de la región, cuya historia relativamente reciente se admiró de sus Libertadores en el proceso de liberación colonial, y ha visto con dolor las crudezas de sanguinarias dictaduras en todo el cono sur durante buena parte del siglo XX, como ese modo “fuerte” de tomar las riendas muy conveniente a los Estados Unidos. Se asimiló como un fenómeno tal de esta parte del mundo, que tendría un influjo muy marcado en novelas de tan renombrados autores como Ramón Valle Inclán, Gabriel García Márquez, Alejo Carpentier o Augusto Roa Bastos. Con el derrumbe de estas dictaduras y el advenimiento de las llamadas democracias a finales de la década del 80 y principios del 90, no por azar muchos de los debates giraron entre antiguas y nuevas visiones de la política y el ejercicio del poder, con el punto de mira en la tradición de los liderazgos temporalmente largos, sobre todo por el influjo que desde entonces se descubrió del modelo político de Estados Unidos en todo el Continente.

Pero pasemos a un aspecto puntual de los procesos de izquierda actuales. Muchos de ellos se han identificado de una manera extraordinaria con líderes de tamaño descomunal como Hugo Chávez, Rafael Correa y Evo Morales. Esto, por supuesto, obedece a muchos factores. Han sido los líderes de grandes transformaciones sociales, económicas y políticas –electos democráticamente- y han mostrado una vez más la influencia enorme del líder en el curso y desenlace de los acontecimientos históricos. Esto parece estar fuera de duda, incluso para los enemigos de los procesos de izquierda, que desde lejana data tienen en las prioridades de sus cálculos la eliminación física de los líderes como paso imprescindible para desmantelar estos procesos. El propio marxismo colocó en una perspectiva general el rol de los líderes y hombres dirigentes en el curso de historia, en el marco de una relación entre la casualidad y la necesidad en los procesos históricos.

Con la muerte de Chávez en 2013, apareció de súbito, sin embargo, una preocupación sobre la verdadera naturaleza de los procesos políticos en Latinoamérica ante la ausencia de grandes líderes. Y en más de una ocasión parece explotar la idea de que el futuro de un proyecto social no puede colocarse en la perspectiva de crear las bases políticas e ideológicas teniendo la figura del líder como alfa y omega del propio proceso. No pugna esta afirmación con la importancia y la necesidad de los líderes en los procesos: el líder rompe los esquemas tradicionales en lo teórico, programático e ideológico; en la lucha detecta los más finos detalles en la urdimbre de los escenarios sociales y políticos que devienen trascendentales en una escala estratégica; proyecta la seguridad del futuro en una combinación de conductas e ideas que suelen mostrar carismas de multitudes; intuyen y proyectan previsiones de ajedrecista, y cancela toda posibilidad de pensar en negativo; expresa toda la perspectiva consecuente y alentadora de un proceso ante frustrados e inevitables fases de la lucha.

Pero muy pocas posibilidades de continuidad y éxito tendrán si la tendencia de los procesos de emancipación lo confía en la inmortalidad física de determinados seres extraordinarios. Lo mejor, lo más conveniente, es fortalecer la institucionalidad revolucionaria, extender y consolidar la hegemonía político-ideológica de izquierda. En muchas partes del mundo el capitalismo ha sabido prescindir en largos períodos de los líderes virtuosos y geniales, precisamente porque estas figuras devinieron secundarias en un esquema de dominación cuyos factores esenciales están apuntalados por una institucionalidad fuerte y consolidada, por la articulación de una hegemonía que hace primar al sistema sobre los individuos.

En este contexto, la izquierda encuentra un émulo en la victoria provisional de la hegemonía ideológica-política del capitalismo. Y sobre todo, en la idea que venimos sosteniendo: de que más allá de la necesidad del líder está la necesidad del propio proyecto político y social, y la posibilidad de su continuidad y supervivencia. Un peso extraordinariamente importante lo juega aquí la consolidación de las estructuras partidistas. Esta lección de alguna manera la aprendieron algunos partidos y movimientos de izquierda, cuando en el contexto de la ofensiva neoliberal de finales de la década del 90 y principios del siglo XXI, no concedieron tanta importancia al tema de la organización partidista y a la concientización de las masas, y no pudieron consolidar una alternativa viable inmediata con el derrocamiento de varios gobiernos en Ecuador, Bolivia y Argentina. Se perdió para aquel momento coyuntural -y antes de la llegada en aquellos países de gobiernos progresistas-, la visión estratégica de la organización, las estructuras jerarquizadas, la estrategia revolucionaria, la unificación de las concepciones de lucha, y cayeron en un dañino camino del espontaneísmo en la lucha.

En la consolidación de los procesos de izquierda que vive el continente, esta lógica opera en un sentido proporcional. Partidos fuertes y bien organizados deben ser congruentes con una política de cuadros correcta. A la par, la hegemonía política e ideológica debe consolidarse con el desmantelamiento gradual de las estructuras y los condicionamientos que sirven de plataforma para reproducción de los patrones capitalistas. No la imposición de consenso, sino la construcción de consenso a partir de una plataforma estructural, en lo político e ideológico, que potencie y sirva de condicionamiento para afirmar y extender ideas, valores, paradigmas.

En suma, la izquierda necesita construir y consolidar proyectos emancipatorios desde una institucionalidad que reproduzca la socialización del poder político y de las relaciones económicas de producción, que amplíe la democratización de la vía pública hasta descenderla a nivel celular en la sociedad. El socialismo latinoamericano necesita de enseñanzas permanentes, de llegar al convencimiento de una educación popular socialista, de colocar en la perspectiva del indoamericano sus necesidades, tradiciones y cultura, de focalizar los anhelos y esperanzas grupales y de las comunidades.

De todo lo expresado, una última conclusión que ha atravesado todo este comentario: los proyectos emancipatorios deben lograr articular un modelo contrahegemónico al capitalismo que logre potenciar y reproducir un sistema en que la centralidad lo ocupe el liderazgo colectivo de las masas, a partir de la estructuración de mecanismos y vías institucionales para canalizar y potenciar su impulso creativo en un marco de hegemonía ideológica y política que permita la existencia de esferas de plena realización material y espiritual.

* Jurista. Miembro de la Junta Nacional de la Sociedad Cultural José Martí

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