Contro Cuba… neppure nel baseball!

La Rivoluzione a Cuba è, prima di tutto, un progetto nazionale, basato su due valori imprescindibili: la giustizia e la libertà.

Michel E. Torres Corona

C’è l’ingenua – e a volte malintenzionata – idea che la Patria sia un concetto al di là del politico. Fortuna del ragionamento metafisico, c’è chi sostiene che sentirsi o sapersi cubani non ha nulla a che vedere con alcun credo ideologico, bensì scaturisce da una candida “identità culturale”, di un’appartenenza a una comunità umana, a uno spazio geografico con determinate regolarità caratteristiche.

Tuttavia, la forgiatura di Cuba come progetto nazionale avvenne nel vivo del dibattito di idee su come organizzare la società nell’Isola, chi o coloro che erano i nemici di quel progetto e di come, quell’ancora ipotetico Stato-Nazione, avrebbe dovuto rispondere all’uno o all’altro criterio economico, sociopolitico, culturale…

Ciò che oggi intendiamo come Cuba non esisterebbe se le idee annessioniste avessero trionfato, se il riformismo o l’autonomismo avessero raggiunto i loro obiettivi, se la lotta indipendentista non si fosse mai concretizzata.

La nazione, come comunità storica, e la nazionalità, come legame cosciente ed emozionale rispetto a quella comunità, esistono nella misura in cui la politica, la lotta di interessi contrastanti e antagonistici ha plasmato i destini del popolo. Sentirsi cubano è una posizione politica allo stesso modo che abiurare tale condizione è una dichiarazione di principio.

Certo, questo non implica che essere cubani determini omogeneità. Ci sono molti modi di intendere e assumere il nazionalismo, modi che possono anche essere diametralmente opposti nella migliore tradizione patriottica cubana; forme che discutono tra loro e che vanno costruendo un consenso “liquido”, instabile, che si trasmuta col corso dei tempi, classi e generazioni.

La Rivoluzione a Cuba è, prima di tutto, un progetto nazionale, basato su due valori imprescindibili: la giustizia e la libertà. Nella tappa decimonona di quel processo rivoluzionario unico, ma non uniforme, questi due valori si tradussero nell’abolizione della schiavitù e l’indipendenza. Per la metà del XX secolo quello che si cercava era la giustizia sociale – intesa come sradicamento della disuguaglianza e dello sfruttamento – e la sovranità popolare, quella forma di libertà che partiva dall’esercizio del potere da parte del sovrano storicamente oppresso, quel popolo che doveva condurre il suo destino senza ingerenze straniere né politicantismi interni.

In questo sforzo, la Rivoluzione trovò nel socialismo e nelle idee marxiste uno strumento per materializzare questo progetto nazionale di giustizia sociale e sovranità popolare, mantenendo intatto il nucleo del pensiero di Martí. Certo, c’erano – ci sono – cubani che si oppongono a questi strumenti, che non capiscono o non condividono i criteri della loro utilità, della loro efficacia. Ciò non li rende meno cubani, bensì rende trasparente la loro visione alternativa della nazionalità, della Cuba che deve essere.

Tuttavia, a questo punto del XXI secolo, possiamo parlare di certi consensi minimi su cosa sia Cuba e cosa ci unisce come cubani, al di là delle discrepanze tattiche o modi divergenti di assumere e provare a cambiare la realtà. Questi consensi minimi sono anche un’espressione politica, benché si voglia disconoscerla, e come quasi tutto in politica, trovano la loro migliore esposizione nell’unità e nella lotta degli opposti.

Per questo, quando un gruppo di “patrioti” sono accorsi in uno stadio a fischiare i giocatori di baseball della propria squadra con indosso le maglie degli avversari, il ripudio è stato schiacciante, sia tra i sostenitori del socialismo come tra coloro che non condividono tale credo.

C’è un minimo di decenza (non la decenza intesa come buone maniere aristocratiche o borghesi, bensì la decenza come imperativo etico) che si è sedimentata come base inalienabile della nazione cubana e di quanti di noi si sentono parte di essa.

Quel minimo di non andare contro Cuba, di non sostenere chi annega o vessa Cuba, di non giustificare per convenienza ciò che molesta il popolo cubano o cerca di cancellare le sue tradizioni, la sua storia, la sua identità. Questa è anche una posizione politica, un consenso di fondo per la nazione eterogenea e in costante formazione quale siamo; una posizione che, decisamente, esclude molti che vivono di Cuba e non per essa, che è anche un modo per escludere coloro che, semplicemente, non valgono la pena.


Contra Cuba… ¡ni en la pelota!

La Revolución en Cuba es, ante todo, un proyecto nacional, basado en dos valores imprescindibles: la justicia y la libertad

Autor: Michel E. Torres Corona |

Existe la ingenua –y a veces malintencionada– idea de que la Patria es un concepto más allá de lo político. Suerte de razonamiento metafísico, hay quien plantea que sentirse o saberse cubano no tiene nada que ver con credo ideológico alguno, sino que parte de una cándida «identidad cultural», de una pertenencia a una comunidad humana, a un espacio geográfico con determinadas regularidades características.

Sin embargo, la forja de Cuba como proyecto nacional se dio al calor del debate de ideas en torno a cómo organizar la sociedad en la Isla, a quién o quiénes eran los enemigos de ese proyecto y de cómo ese todavía hipotético Estado-nación tendría que responder a unos u otros criterios económicos, sociopolíticos, culturales…

Lo que hoy entendemos por Cuba no existiría si hubiesen triunfado las ideas anexionistas, si el reformismo o el autonomismo hubieran alcanzado sus metas, si la lucha independentista nunca hubiera cuajado.

La nación, como comunidad histórica, y la nacionalidad, como vínculo consciente y emocional con respecto a esa comunidad, existen en la medida en que la política, la lucha de intereses contrapuestos y antagónicos, ha moldeado los destinos del pueblo. Sentirse cubano es un posicionamiento político de la misma manera en que abjurar de esa condición es una declaración de principios.

Por supuesto, eso no implica que ser cubano determine una homogeneidad. Hay muchas formas de entender y asumir el nacionalismo, formas incluso que pueden estar diametralmente opuestas a lo mejor de la tradición patriótica cubana; formas que discuten unas con otras y que van construyendo un consenso «líquido», inestable, que trasmuta con el decurso de épocas, clases y generaciones.

La Revolución en Cuba es, ante todo, un proyecto nacional, basado en dos valores imprescindibles: la justicia y la libertad. En la etapa decimonónica de ese proceso revolucionario único, pero no uniforme, esos dos valores se tradujeron en la abolición de la esclavitud y la independencia. Para mitad del siglo XX, lo que se buscaba era la justicia social –en el sentido de la erradicación de la desigualdad y la explotación– y la soberanía popular, esa forma de libertad que partía del ejercicio del poder por parte del soberano históricamente oprimido, ese pueblo que debía capitanear su suerte sin injerencias extranjeras ni politiquerías domésticas.

En ese empeño, la Revolución halló en el socialismo y en las ideas marxistas una herramienta para concretar ese proyecto nacional de justicia social y soberanía popular, guardando intacto el núcleo del pensamiento martiano. Por supuesto, hubo –hay– cubanos que se oponen a esas herramientas, que no comprenden o no comparten el criterio de su utilidad, de su eficacia. Eso no los hace menos cubanos, sino que transparenta su visión alterna de la nacionalidad, de la Cuba que debe ser.

No obstante, a estas alturas del siglo XXI, sí podemos hablar de ciertos consensos mínimos en torno a lo que es Cuba y a lo que nos une como cubanos, más allá de las discrepancias tácticas o formas divergentes de asumir e intentar cambiar la realidad. Esos consensos mínimos son también una expresión política, aunque se quiera desconocer, y como casi todo en política, hallan su mejor exposición en la unidad y lucha de contrarios.

Por eso, cuando un grupo de «patriotas» acudieron a un estadio a abuchear a los peloteros de su propio equipo vistiendo la camiseta de los contrarios, el repudio fue mayoritario, tanto entre partidarios del socialismo como entre los que no comparten ese credo.

Hay un mínimo de decencia (no la decencia entendida como buenas maneras aristocráticas o burguesas, sino la decencia como imperativo ético) que se ha sedimentado como base inalienable de la nación cubana y de los que nos sentimos parte de ella.

Ese mínimo de no ir contra Cuba, de no apoyar a los que ahogan o acosan a Cuba, de no justificar por conveniencia aquello que hostiga al pueblo cubano o trata de borrar sus tradiciones, su historia, su identidad. Ese también es un posicionamiento político, un consenso básico para la nación heterogénea y en constante formación que somos; un posicionamiento que, decididamente, excluye a muchos que viven de Cuba y no para ella, que es también una forma de excluir a aquellos que, sencillamente, no valen la pena.

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